“Le mie abilità sono più forti della mia disabilità”
(R. Hen-sel)
Sono un uomo con una disabilità evidente
in mezzo a tanti uomini con disabilità che non si
vedono
Ezio Bosso
Nella vita delle persone, il lavoro rappresenta un punto importante sia che lo si consideri un obiettivo, una meta, sia rappresenti un aspetto fondamentale della quotidianità; il lavoro assume un ruolo centrale nell’esistenza del singolo e della società. Svolgere un’attività lavorativa può avere una duplice valenza: da una parte si possono avere effetti che possiamo chiamare espliciti, come il corrispettivo economico che si riceve a fronte dell’attività prestata, e impliciti o latenti, legati allo status di lavoratore, come la riconoscibilità sociale, la possibilità di instaurare nuovi contatti e relazioni, il porsi obiettivi di crescita personale. Avere un’occupazione, dunque, rappresenta un importante fattore che segna la routine quotidiana, fornisce obiettivi significativi, aumenta le finanze individuali e/o familiari allontanando il rischio di povertà. Nell’attività lavorativa vi è anche correlato un aumento del benessere personale, dell’autostima, del miglioramento della gestione delle relazioni interpersonali e sociali. Da qui si evince la rilevanza che il lavoro ha per ogni individuo ed in particolare per le persone con disabilità, che spesso, tuttavia, restano fuori dal mercato del lavoro. In un documento redatto da Harnois e Gabriel (2000) per l’Organizzazione Mondiale della Sanità, gli autori individuano cinque ordini di motivi che fanno sì che avere un impiego sia fonte di benessere psicologico; nello specifico il lavoro permette di: 1. Strutturare il tempo (spesso un’assenza di struttura temporale può rappresentare un gran carico a livello psicologico): uno dei problemi più grandi per un disoccupato è rappresentato dalla noia e monotonia. La routine lavorativa ridefinisce significati e obiettivi ai momenti che compongono il quotidiano determinando così sia il tempo del lavoro che quello del riposo. 2. Avere più contatti sociali. 3. Condividere scopi e impegni di gruppo: il lavoro offre un contesto sociale al di fuori della famiglia in cui può profilarsi giorno dopo giorno un progetto, un obiettivo che accomuna coloro che operano insieme. 4. Definire e rafforzare l’identità sociale.
Essere esclusi dal mercato del lavoro, quindi, non solo crea privazioni materiali, ma mina anche la fiducia in se stessi, provoca senso d’isolamento e marginalità; la mancanza di lavoro rappresenta un problema che coinvolge l’intero assetto del nostro paese e incide maggiormente su coloro che sono definiti “soggetti svantaggiati”. Avere un’occupazione per un soggetto disabile aiuta ancora di più a migliorarne l’autonomia, favorendo progetti di vita indipendente. Ma la situazione occupazionale dei disabili in Italia è drammatica. “Basti pensare che su 100 persone di 15-64 anni che, pur avendo limitazioni nelle funzioni motorie e/o sensoriali essenziali nella vita quotidiana oppure disturbi intellettivi o del comportamento, sono comunque abili al lavoro, solo 35,8 sono occupati”.
In Italia, esistono varie di normative che nel corso degli anni si sono evolute per rispondere alla richiesta di lavoro da parte delle fasce deboli. Dalla normativa della L. 482/68 sul collocamento obbligatorio alla “Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate” (L. 104/92) che si focalizza sull’importanza dell’integrazione sociale del disabile nel contesto umano e ambientale nel quale egli vive. Tuttavia la normativa che maggiormente ha influenzato l’ingresso nel mondo del lavoro delle persone disabili negli ultimi anni è la L. 68/99 nota come “legge sul collocamento mirato”. Secondo la legge 68, la persona con disabilità, qualora desideri trovare un impiego, può iscriversi ad apposite liste purché l’interessato risulti disoccupato al momento dell’iscrizione e abbia la certificazione di invalidità e/o disabilità.
É altresì importante considerare un disabile, cioè una persona non abile nella traduzione del termine, come una persona con un’abilità, ma diversa che può essere vista quindi con una nuova prospettiva. In tal senso si accende l’attenzione alle abilità residue e non a quelle compromesse.
É importante aumentare la consapevolezza collettiva che esistano persone diversamente abili che rappresentano il tessuto, la forma di ogni società, che ne abbelliscono e completano il suo significato. In latino la parola comunità (communis) genera una quantità di termini fondamentali, dal comune al comunicare, ma il suo significato originario non è quello che ci aspetteremmo. Il munus è l’obbligo, la funzione: il communis , nei suoi minimi termini descrive il carattere di chi o ciò che svolge il suo incarico in una situazione condivisa, insieme agli altri.
La communitas emerge quindi come rapporto di comunanza civile e socievole, legame di partecipazione e gruppo insieme. Rappresenta un traguardo di un onere condiviso, splendidamente ambiguo: perché il munus è l’obbligo ma anche (e secondo alcuni è il significato più antico) il dono, il favore, l’offerta in voto. E a noi non resta che ammirare con quanta serietà, dedizione, impegno e fierezza le persone diversamente abili affrontano quotidianamente il lavoro che gli è stato assegnato. Come disse Carl Gustav Jung: “Date all’uomo la dignità e lasciatelo essere individuo, affinché trovi la sua comunità e la ami.”