Ritrovarmi e ritrovarti nello stupore del tuo sguardo

 

 

 

Chi soffre di demenza non si preoccupa più della data e dellora. 

È una persona che esce raramente di casa, 

è sempre più spaesato nellambiente che lo circonda,

 e a un certo punto non comprende più neppure se stesso. 

Alla fine non rimane che un guscio vuoto: 

la mente dellindividuo, la sua personalità,

 le sue caratteristiche e le sue qualità, 

la sua storia vanno perdute.

Manfred Spitzer, Demenza digitale, 2012

 

La vita delle famiglie è attraversata da tanti avvenimenti, molti dei quali sono esperienze di malattie e lutti. Le reazioni emotive e psicologiche nell’affrontare queste esperienze sono diverse; alcune persone si confrontano con altre, cercando conforto, consigli, sfogo, appoggio, comprensione, ascolto, altre si chiudono in una bolla di dolore e silenzio, laddove la paura, nel caso di malattie soprattutto di tipo oncologico, delle attese e della non prevedibilità della prognosi, lascia sospesi. Per alcune di queste malattie (non parliamo poi di quelle psicologiche) c’è spesso un senso di pudore, di incredulità, di smarrimento che può portare a chiudersi anziché aprirsi agli altri. Il dolore e la sofferenza rimangono un fatto privato, intimo, un dolore muto e silenzioso. Le parole perdono di significato, bastano gli sguardi ma anch’essi delicati, furtivi, per non fare capire al malato come sta e come stiamo. Le uniche parole a cui si rimane appesi anzi si ricercano, sono quelle dette in ambito ospedaliero e lì ci si può aprire verso chi sta attraversando un percorso simile al proprio.

Ho capito che quando invece si affronta il tema delle demenze, le persone che se ne occupano (cargiver) hanno desiderio di parlarne, che sia il genitore, i nonni, gli zii, gli amici; in quel caso si apre velocemente un dialogo di scambi emotivi, esperienziali anche burocratici spesso difficili, tortuosi e umilianti. Umilianti sì, perché non è facile vedere il proprio caro essere sottoposto a test che lo mortificano, lo destabilizzano, e lo affliggono, perché noi sappiamo il prima, sappiamo la storia, le abilità, il carattere, la forza che viene spazzata via nel non saper più neanche fare un cerchio con dentro i numeri che simboleggiano un orologio. La differenza non la fa il test, la fa chi il test lo esegue. 

Un tema quindi delicato ed emotivamente coinvolgente, ma cosa sappiamo dunque di questa malattia?

Con il termine di demenza si indica una condizione clinica di natura cronico-degenerativa, vascolare, metabolica o infiammatoria, che si presenta in diverse condizioni patologiche primarie e secondarie. Demenza è un termine generico per diverse malattie per lo più progressive, che colpiscono la memoria, altre capacità cognitive e il comportamento, e che interferiscono in modo significativo con la capacità di una persona di mantenere le attività della vita quotidiana. 

Nel DSM 5 TR (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) il termine demenza viene sostituito con quello di Disturbo Neuro-cognitivo, distinto in lieve o maggiore. Si pone quindi l’accento più sul declino della persona rispetto a un precedente livello di prestazione, sottolineando la natura acquisita di queste sindromi, spostando la focalizzazione sulla perdita della memoria caratteristico della Malattia di Alzheimer, ai deficit in altri domini cognitivi (il linguaggio, funzioni esecutive ecc.)  che possano presentarsi compromessi già prima della perdita della memoria. Nello specifico, il Disturbo Neurocognitivo Maggiore si caratterizza per la compromissione di abilità cognitive quali: attenzione complessa, abilità esecutive, apprendimento e memoria, linguaggio, abilità percettive e cognizione sociale, con un declino del precedente funzionamento cognitivo. A causa di tali perdite possono insorgere interferenze con lo svolgimento autonomo delle attività quotidiane di base e di compiti esecutivi (vestirsi, fare la spesa, cucinare). Accanto alla compromissione dei domini cognitivi è importante valutare la presenza, molto frequente, dei cambiamenti degli aspetti comportamentali. Il sintomo comportamentale, quindi, non deve essere visto come un aspetto da contrastare ma come un aspetto da comprendere e gestire.

Tale condizione può essere dovuta a diverse malattie che conducono a forme di demenza: la Malattia di Alzheimer, Degenerazione Fronto-temporale, Demenza a Corpi di Lewy, Disturbo Neuro-cognitivo vascolare, dovuto a trauma cranico, indotto da sostanze/farmaci, dovuto a infezione da HIV, dovuto a malattie da prioni, dovuto da Morbo di Parkinson, dovuto a Malattia di Huntington, dovuto a un’altra condizione medica, dovuto a eziologie molteplici. Secondo i dati epidemiologici, riportati dal World Alzheimer Report 2016, le forme più diffuse di demenza sono: Malattia di Alzheimer (circa il 60% delle diagnosi di demenze), demenza a corpi di Lewy (15%), demenza vascolare (15%-20%), demenza frontotemporale (5%), altre (5%). 

Ma quali sono le persone più colpite? La prevalenza sulla popolazione generale è di circa l’1%-2% all’età di 65 anni, e del 30% all’età di 85 anni; considerato il progressivo invecchiamento della popolazione, è definita dall’OMS come una priorità mondiale di salute pubblica: nel 2010, 35.6 milioni di persone risultavano affette da demenza, con una stima di aumento del doppio nel 2030 e del triplo nel 2050, 7.7 milioni di nuovi casi ogni anno e una sopravvivenza media dopo la diagnosi di 4-8-anni. In una ridotta percentuale di casi, la demenza può tuttavia insorgere tra i 45 e i 64 anni .

Sebbene l’età sia il più forte fattore di rischio noto per l’insorgenza della demenza, non è una conseguenza inevitabile dell’invecchiamento. Inoltre, la demenza. non colpisce esclusivamente le persone anziane, poichè la demenza a esordio precoce (definita come l’insorgenza dei sintomi prima dei 65 anni) rappresenta fino al 9% dei casi. Alcune ricerche hanno dimostrato una relazione tra lo sviluppo di deterioramento cognitivo e fattori di rischio correlati allo stile di vita che sono condivisi con altre malattie non trasmissibili. Questi fattori di rischio includono l’inattività fisica, l’obesità, una dieta sbilanciata, la perdita dell’udito, il consumo di tabacco e l’abuso di alcol, nonché il diabete mellito, l’ipertensione in età adulta ed inoltre traumi cranici e inquinamento atmosferico. Altri fattori di rischio potenzialmente modificabili, più specifici della demenza, includono la depressione in età adulta, il basso livello di istruzione, l’isolamento sociale e l’inattività cognitiva. Inoltre, esistono fattori di rischio genetici non modificabili che aumentano il rischio di sviluppare demenza. Esistono anche prove che suggeriscono che, in generale, le donne sviluppano più demenza rispetto agli uomini. La demenza è una delle principali cause di disabilità e dipendenza tra gli anziani.

Ad oggi, la prevenzione  rappresenta una considerevole parte della ricerca scientifica degli ultimi 20 anni, nonché dell’attività dei maggiori organismi internazionali, per l’impatto che ha sulla salute pubblica. La possibilità di intervenire sui fattori di rischio modificabili individuati, si stima possa ridurre e prevenire lo sviluppo di circa il 40% dei casi di demenza, agendo in tutte le fasce di età, anche in età avanzata.

Non va inoltre dimenticato che le persone affette da demenza e le loro famiglie subiscono un impatto finanziario significativo dovuto al costo dell’assistenza sanitaria e sociale e alla riduzione o perdita del reddito. La demenza comporta un aumento dei costi per governi, comunità, famiglie e individui e una perdita di produttività  per le economie. Nei paesi ad alto reddito, i costi relativi alla demenza sono suddivisi tra assistenza informale (45%) e assistenza sociale (40%). Il previsto aumento sproporzionato della demenza nei paesi a basso e medio reddito contribuirà ulteriormente ad aumentare le disuguaglianze tra paesi e popolazioni in tutto il mondo, con un impatto significativo. É dunque fondamentale  la necessità di prevenzione, trattamento e cura della demenza e l’effettiva erogazione di questi servizi che dove essere ampio. La demenza è  sotto diagnosticata in tutto il mondo e, se viene formulata una diagnosi, questa avviene in genere in una fase relativamente avanzata del processo della malattia. I percorsi di assistenza a lungo termine (dalla diagnosi fino alla fine della vita) per le persone con demenza sono spesso frammentati se non del tutto assenti.

La figura dello psicoterapeuta può essere un aiuto importante nell’aiutare la persona affetta da demenza e dell’intero nucleo familiare per comprendere le sfaccettature di queste malattie. La persona che si ammala di demenza, ma anche le persone che se ne prendono cura, affrontano un insieme di vissuti emotivi quali l’angoscia, la paura, lo smarrimento, la tristezza, senso di inadeguatezza, di impotenza, la paura per il futuro, il senso di perdita di parti del proprio sé, della propria identità, perdita di ruoli sociali e familiari. In questo caos di emozioni un percorso psicoterapico costruito insieme  può favorire la rilettura dei significati personali favorendo una elaborazione dei vissuti di perdita e una maggiore comprensione dei sintomi della malattia.

…ti vengo a cercare lì, in quel tempo sospeso tra ieri e oggi, tra forza e fragilità, nello sguardo perso che poi si riaccende quando arriva il ricordo, tra il noi e il chi sei tu? So che ci sei ancora, non so per quanto, non so come, ma la tua memoria la custodiamo noi per te e se è fatta di ricordi è perché tu l’hai riempita. Finché ci sei /non ci sei …ci siamo, stiamo, navighiamo in queste nuova sfida insieme, anche se sembri non saperlo, sappiamo che lo senti, che ci senti.  

Adolescenti e genitori: fragilità allo specchio

Ci sono due cose durature che possiamo lasciare 
in eredità ai nostri figli: le radici e le ali.”
Wiiliam Hodding Carter

“Buongiorno Dottoressa, sono una mamma … non so più cosa fare, sono preoccupata e arrabbiata, mio figlio non vuole più andare a scuola, sta tutto il giorno in camera sua, sempre sul computer, non c’è verso di fargli fare qualcosa, a mala pena ti saluta. Si alza giusto per mangiare e poi si ritira. Non lo riconosco più, non mi ascolta più, non gli interessa di niente e nessuno”. Oppure “mia figlia ha un’ossessione per il cibo, per le calorie, per gli esercizi fisici ecc..” Esempi di richieste che nell’ultimo anno sono diventate sempre più numerose e frequenti. In molte situazioni, le problematiche sono più difficili da gestire tanto da richiedere la presa in carico della neuropsichiatria infantile, a causa di agiti violenti, depressione, autolesionismo, attacchi di panico,  disturbi alimentari gravi, disturbi ossessivi, disturbi della personalità… I servizi pubblici però hanno a loro volta visto moltiplicare le richieste, spostando così la lista di attesa di molti mesi. Una situazione preoccupante e  delicata allo stesso tempo, resa ancora più complessa se il figlio maggiorenne non vuole essere aiutato. I disagi espressi, sovente riguardano quindi un vero e proprio attacco al corpo che rappresenta una voce muta del dolore che i ragazzi provano, ma che al contempo diventa “udibile” al genitore che non può utilizzare stili educativi del passato che possono essere controproducenti e inefficaci, poiché i sintomi dei figli spaventano e preoccupano. L’adolescenza è un periodo difficile, dove l’insicurezza, la paura del giudizio, della accettazione, dell’incertezza, rappresentano il mondo interiore che incontra e spesso si scontra con quello esterno. Gli strumenti psicologici, emotivi, che l’adolescente ha a disposizione per affrontare i compiti evolutivi e per arrivare all’età adulta, non sempre sono adeguati per le sfide e le contraddizioni della vita quotidiana. 

Quando parliamo di adolescenti però non possiamo non cercare di capire e analizzare cosa succede anche al mondo degli adulti che di loro si devono occupare. Madri, padri, insegnanti spesso a loro volta fragili, in affanno, arrabbiati, soli, impotenti che non riescono a fronteggiare nuove forme di disagio con vecchi riferimenti educativi. E davvero essere genitore o insegnante oggi non è un compito facile. Coloro che chiedono aiuto ad un terapeuta molto spesso si mettono in gioco, cercano di capire come migliorare la comunicazione, imparano a lasciare andare il bambino per fare entrare il giovane che sta diventando adulto, ma è ancora nella terra di mezzo.  É importante capire che come dice U. Galimberti,  “il ruolo fondamentale del genitore lo si ha fino ai 12 anni, dopodiché non è più considerato un punto di riferimento, lo è il gruppo di pari.” E il genitore deve sapere tollerare quarta frustrazione, che vale sempre la pena di ricordare è transitoria; se si è costruito un buon rapporto, fatto di rispetto, ascolto, empatia, coerenza, momenti trascorsi insieme, insegnamento di responsabilità, di valori, di affetto, di fiducia, di stima, di senso del dovere, di capacità di prendersi cura di sé e degli altri, dell’ambiente, del tempo libero e di tanti aspetti della vita, se abbiamo dato delle bussole, può darsi che i giovani navigheranno su mari mossi per un po’, spinti dal loro desiderio di scoprire il mondo con la loro testa, ma poi torneranno al porto, solo se questo è però un luogo sicuro. Tornare non significa stare lì, perché i figli devono intraprendere il loro viaggio ma devono sapere che ci siamo. Hanno bisogno di essere accompagnati, sostenuti, capiti, a volte fermati, sollecitati, responsabilizzati e hanno bisogno di adulti più stabili, meno presi dai loro problemi e a volte individualismi perché il rapporto non può essere a quell’età simmetrico, i figli non sono amici, o pari, e soprattutto non si può chiedere loro ciò che molte volte gli adulti per primi non fanno. Migliaia di informazioni riempiono la mente dei ragazzi, video, immagini, dove cercano risposte a domande non sempre facili da fare in famiglia, con tutta la possibilità di approssimazione che questo può comportare. In tanti anni di lavoro clinico, i ragazzi mi hanno trasmesso il loro desiderio primario di essere ascoltati, il desiderio di esprimere anche le loro convinzioni assolute tipiche dell’adolescenza, ma sempre pronti al confronto, all’ascoltare un punto di vista diverso, non la verità dell’adulto, ma solo un’altro modo di leggere le esperienze o di dare un nome alle emozioni. “Ti presto i miei occhiali, né meglio né peggio solo diversi” dico sempre ai miei pazienti. Ultima riflessione: in ambito preventivo c’è ancora molta strada da percorrere, è fondamentale che si creino più sinergie tra tutti gli interlocutori preposti alla crescita e sviluppo dei giovani: famiglia, scuola, territorio, attività sportive, comuni, ad oggi troppo spesso portatori di una visione unica, non integrata, ognuno a difendere la propria realtà a discapito di una visione d’insieme e di collaborazione.

 

La parte migliore di noi

 Fino a quando non hai amato un animale, 

una parte della tua anima sarà sempre senza luce.

(Anatole France)

Il legame che intercorre tra le persone e gli animali da compagnia presenta diverse implicazioni di interesse psicologico, si parla infatti spesso del benessere psicologico, emotivo, affettivo, comunicativo e di responsabilizzazione che tale relazione può comportare. Il rapporto che unisce l’uomo agli animali é di lunga data ed è trasversale alle diverse culture ma è negli ultimi anni che notiamo un aumento significativo di acquisto/adozione di animali da compagnia, dovuta anche ad una maggiore sensibilità delle persone nei confronti degli animali, a cui si attribuisce maggiore intelligenza, sensibilità, emozioni di quanto si ritenesse in passato.Vari studi dimostrano che esiste una base biologica tra l’uomo e gli animali da compagnia che rende possibile il legame reciproco affettivo dato dalla condivisione di strutture cerebrali di meccanismi fisiologici che ne consentono il reciproco scambio affettivo. Fin dagli studi di Levinson degli anni ’70 si è dimostrato che l’interazione con gli animali favorisce in noi umani la capacità relazionale di comprendere gli altri migliorandone l’umore. Prendersi cura di un animale può calmare l’ansia, può trasmettere calore affettivo e aiutare a superare lo stress e la depressione. Gli scienziati ci dicono che la presenza di un animale in molti ambiti può contribuire a regolarizzare il battito cardiaco, abbassare la pressione arteriosa, migliorare l’ossigenazione del sangue, rafforzare il sistema immunitario. Va inoltre detto che tra l’uomo e l’animale si instaura un vero e proprio legame di attaccamento, termine derivante dalla  psicologia, che indica il desiderio di vicinanza reciproca, sicurezza, con conseguente stress alla separazione seguito da comportamenti che cercano di mantenere o ristabilire il contatto con l’altro per dare un senso di sicurezza che deriva proprio dalla presenza dell’altro.  

La maggior parte delle persone considera il proprio animale da compagnia come un membro della famiglia. Tuttavia quando decidiamo di trascorrere una parte della nostra vita con un animale, dobbiamo tenere in conto che avendo una prospettiva di vita inferiore a quella degli esseri umani, sappiamo che trascorreranno con noi solo una parte della nostra vita; e per questo molte persone affronteranno il lutto dei loro animali. Nonostante le differenze individuali, la ricerca suggerisce che per molte persone l’esperienza di lutto per un animale domestico è analoga a quella di perdita di un umano come un parente, un amico o un compagno. Alcuni stringono un legame molto forte, unico e speciale con l’animale domestico, che viene percepito come fonte di amore incondizionato, supporto, conforto, sicurezza e stabilità. La perdita può essere particolarmente dolorosa per quelle persone che si sentono sole e per le quali l’animale rappresenta la fonte principale di amicizia, compagnia e affetto. Tuttavia, quando muore un animale da compagnia, può risultare difficile esprimere apertamente il proprio dolore, si ha paura di non essere compresi, di venire giudicati o derisi, si può avere il timore di essere biasimati per la propria sofferenza. Se  non ci sente capiti ci si può chiudere, ci si può isolare, reprimendo le proprie emozioni, con la conseguenza che l’elaborazione del lutto sarà più difficile e lunga.

É importante dunque parlare con altre persone dell’accaduto, però solo con coloro che pensiamo abbiano una sensibilità ed empatia riguardo a questo aspetto delle sofferenza. La narrazione, ovvero il poter raccontare e condividere con gli altri la propria esperienza, aiuta ad esprimere a far defluire le proprie emozioni; inoltre, aiuta a ridefinire l’accaduto così da poter superare la perdita.

In uno studio pubblicato nel 2003 sulla rivista Professional Psychology: Research and Practice, «molte persone (compresi i proprietari di animali domestici) ritengono che il dolore per la morte di un animale domestico non sia meritevole di tanto riconoscimento quanto la morte di una persona, e sfortunatamente questo tende a inibire le persone nella piena sofferenza per la morte di un animale». Nelle famiglie con bambini, tra l’altro, è possibile che questo sia il primo vero lutto sperimentato dai figli.

Alcune delle reazioni più frequenti associate alla perdita sono:

  • urgente ricerca dell’animale morto;
  • rabbia/irritabilità
  • umore depresso
  • perdita di speranza
  • pianto
  • sensi di colpa
  • ansia
  • sintomi somatici (es. dolore)

In seguito alla perdita di un animale, gli individui provano le stesse reazioni emotive e attraversano fasi simili a quelle descritte in letteratura per la perdita di una persona. Nel processo di elaborazione del lutto solitamente si susseguono una serie di fasi che includono la negazione, la rabbia, la negoziazione, la depressione e, infine, l’accettazione (Kübler-Ross, 1969).

Come affrontare la perdita di un animale domestico? Proviamo ad essere pazienti e comprensivi con noi stessi; concediamoci il tempo del lutto, prendici tutto il tempo necessario per elaborare la perdita; rimuoviamo ciò che appartiene all’animale in modo graduale secondo i nostri tempi; prendiamoci cura di noi stessi e dei nostri bisogni primari, soprattutto in fase acuta; connettiamoci con altre persone che hanno affrontato una perdita simile; scriviamo e/o condividiamo la storia del nostro animale domestico; recuperiamo i ricordi, le caratteristiche dell’animale, ciò che più ci manca di lui/lei; creiamo un proprio rituale per ricordare l’animale, fare un tributo all’animale; manteniamo intatta la nostra routine; continuiamo a dedicarci agli altri animali domestici vivi, se presenti.

…e loro sono lì a ricordarci con uno sguardo, con un colpo di coda, un miagolio che la vita spesso è più semplice di come noi la viviamo. Gli animali ci insegnano che l’amore è fatto di semplici gesti e attenzioni; che quando ci si impegna bisogna farlo con rispetto, cura, pensiero e cuore. Sicuramente siamo molto più spesso noi a tradirli e deluderli che non viceversa. E quando se ne vanno portano con sé anche un pò della parte migliore di noi. 

Loro sono i professori dell’amore e noi gli eterni allievi. 

Ciao dolce Susy, ciao amata Lilla, per sempre nei nostri cuori ❤️

La fatica di ricominciare

 

 La gioia contagia, il dolore isola.
(Alessandro Morandotti)

 

Le giornate passano, si susseguono, è arrivata la primavera, l’attendevamo con speranza e fiducia. Finalmente possiamo riprenderci la vita, le belle giornate di sole, le camminate, sentire le  risate e il vociare dei bambini che si rincorrono, urlano, giocano. E poi possiamo incontrare amici e parenti con più serenità e desiderio. Sono trascorsi più di due anni dall’inizio della pandemia, un fenomeno sociale così potente ed intenso che non possiamo  non fermarci ad osservare e riflettere su ciò che ha lasciato dietro di sé ma che, essendo ancora attuale, continua a modificare abitudini e stati d’animo. Non ha sicuramente aiutato nell’affrontare i timori e le ansie, lo scatenamento di una guerra che percepiamo come più vicina a noi generando paura, dispiacere e preoccupazione, mista ad un senso di colpa che ci fa sentire in imbarazzo nel desiderare un po’ di spensieratezza e divertimento. Nella pratica clinica sempre più persone si rivolgono a me per disturbi d’ansia, attacchi di panico e depressione. Ma oltre alle persone che accedono in terapia ce ne sono moltissime che stanno facendo un’enorme fatica a ricominciare “a vivere”. Stanchezza, noia, anedonia ossia l’incapacità, totale o parziale, di provare soddisfazione, appagamento o interesse, per le consuete attività piacevoli, quali il cibo, il sesso e le relazioni interpersonali, sono i problemi più diffusi in questo periodo storico. Tutto diventa faticoso, la casa luogo in cui prima ci sentivamo stretti, viene ora percepita per molti come luogo rassicurante. La mancanza di desiderio, di conoscere, sperimentarsi, aumentare la socialità è un problema molto più diffuso di quello che si pensa soprattutto tra i giovani. Non mi riferisco nello specifico al fenomeno dell’Hikikomori, nato in Giappone che significa letteralmente “mettersi da parte” che consiste nel desiderio e nella spinta all’isolamento fisico, continuo nel tempo, che si manifesta come reazione alle eccessive pressioni di realizzazione sociale tipiche delle società capitalistiche economicamente sviluppate e che negli ultimi anni è cresciuto anche in Italia soprattutto tra i maschi di età compresa tra i 15 e i 25 anni.

La mia riflessione svolge lo sguardo a persone che non si isolano totalmente, lavorano, studiano ma risentono di una mancanza di stimoli, di progettualità che viene vissuta però come “normalità”. Sono spesso le persone accanto a far emergere il problema: partner, genitori, che iniziano a preoccuparsi e a sentirsi e/o vedere chiuse le persone a cui vogliono bene, provando sentimenti di preoccupazione mista a rabbia, impotenza e frustrazione. Spesso alla domanda su come si trascorre il tempo libero la risposta è guardando le serie tv o dormendo. Ragazzi che dovrebbero avere l’argento vivo, si sentono spenti, stanchi, demotivati, senza ambizioni, sogni e desideri. Va sottolineato che mentre per gli adulti possiamo parlare della fatica di ricominciare, per gli adolescenti e i giovani adulti possiamo parlare di incominciare perché due anni di limitazioni delle relazioni sociali non gli hanno permesso di iniziare o consolidare le relazioni, almeno direttamente con la società. Quando però il rifiuto di uscire o relazionarsi non è momentaneo ma continuo e resistente alle varie sollecitazioni dei familiari, partner, amici ecc… possiamo pensare ad un vero e proprio disturbo. Ci siamo abituati ad avere uno sguardo sul mondo attraverso il web, il mondo entra nelle nostre case, possiamo conoscere storie, pezzi di vita, mode, tutto a portata di mano. Ma c’è una grande differenza tra il conoscere passivamente e fare esperienze. Molti ragazzi/e hanno molte informazioni ma provano ansia nel gestire ed occuparsi di piccole e medie incombenze, sono vulnerabili e se l’ansia diventa invasiva, preferiscono evitare di esporsi o sperimentare, innescando così un circuito che li rende sempre più insicuri. Ed è proprio a loro che bisogna tendere una mano, non spronandoli con disappunto, perché per molti non é una questione di scarsa volontà, ma di difficoltà, aiutiamoli a riprendersi “il mondo”, quello vicino, a portata. Un passo alla volta, torniamo a guardare fuori dalle nostre stanze reali e virtuali. Il contatto con la natura, l’utilizzo di tutti i nostri sensi, l’importanza della luce solare, parlare con gli altri, avere e dare feedback è fondamentale per riprenderci da un “letargo” che è durato fin troppo tempo.

“Le mie abilità sono più forti della mia disabilità” (R. Hen-sel)

“Le mie abilità sono più forti della mia disabilità” (R. Hen-sel)